Milano, 4 marzo 2014 - 09:10

Poche «Unità Ictus» in Italia
E il Sud ne è quasi del tutto privo

Le strutture specializzate per affrontare la trombosi o l’emorragia cerebrale in emergenza sono mal distribuite

di Elena Meli

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Nel mondo succede a una persona ogni sei secondi: un trombo va a occludere un’arteria cerebrale, oppure un vaso sanguigno si rompe all’improvviso, e una parte più o meno estesa del cervello va in black-out. È l’ictus, una malattia che in Italia e nel mondo occidentale è la prima causa di invalidità e ogni anno è responsabile di oltre un decesso su dieci (GUARDA). Viene da pensare che per affrontare un’emergenza tanto grave siano messe in campo tutte le risorse possibili; invece durante l’annuale International Stroke Conference dell’American Stroke Association è stato lanciato l’allarme, sottolineando che il 60% degli ospedali Usa non è attrezzato per erogare la terapia con trombolitico, che “scioglie” il coagulo in caso di ictus ischemico, e appena il 4% dei pazienti candidabili a questa cura la riceve davvero.

Sbagliato credere che da questa parte dell’oceano le cose vadano meglio, proprio la scorsa settimana durante il congresso dell’Italian Stroke Organization sono state segnalate le tante carenze nella gestione dell’ictus nel nostro Paese: dal momento in cui un paziente ha i sintomi a quello in cui affronta la riabilitazione, infatti, sono tantissime le cose che possono andare storte compromettendo la possibilità di un reale recupero che, se tutti gli ingranaggi funzionassero a dovere, sarebbe alla portata di un numero molto più alto di malati. «Intanto, purtroppo, sono ancora pochi gli italiani che sanno riconoscere i segni di un ictus per chiamare subito i soccorsi - spiega Paolo Binelli, presidente dell’Associazione per la Lotta all’Ictus Cerebrale (A.L.I.Ce Italia Onlus) -. Un’indagine recente del Censis ha mostrato che appena uno su quattro conosce i sintomi meno noti, come un mal di testa forte e improvviso, un calo repentino della vista, l’incapacità di capire che cosa viene detto o iniziare a parlare a vanvera. Tanti perciò non chiamano il 118 e vanno a letto sperando che passi. Una perdita di tempo che può essere fatale».

Chi ha un buon livello socioeconomico e culturale è più probabile che non trascuri gli indizi di un ictus, ma anche in questi casi bisogna augurarsi di abitare nei paraggi di una delle Unità Emergenza Ictus, o Stroke Unit (VEDI L’ELENCO). In Italia ce ne dovrebbe essere almeno una ogni 200mila abitanti (quindi non meno di 300 in totale), invece sono operative poco meno di 160 e quasi tutte al Nord e al Centro, tanto che al Sud oggi si muore più di ictus che di infarto. Perché le Stroke Unit non riescono a diffondersi come le Unità di Terapia Intensiva Cardiologica (Utic), che hanno ridotto moltissimo le conseguenze nefaste degli attacchi cardiaci salvando la vita a migliaia di persone? «Le Utic sono fiorite sull’onda della comparsa di cure risolutive per l’infarto come l’angioplastica; anche la Stroke Unit fa la differenza, perché riduce del 10% la mortalità da ictus, ma questo purtroppo non è stato capito appieno e in molte Regioni si è preferito non investire per realizzarle - risponde Giuseppe Micieli, direttore del Dipartimento di Neurologia d’Urgenza dell’Istituto Neurologico Mondino di Pavia -. In molti ospedali peraltro esistono risorse e professionalità che renderebbero relativamente semplice l’apertura di una Stroke Unit».

Non serve infatti chissà che cosa per attrezzarne una, bastano medici, infermieri, logopedisti, fisioterapisti per cui l’ictus sia da anni il pane quotidiano: proprio l’esperienza sul campo fa la differenza. Un paziente con sintomi sospetti che arriva in questi reparti viene subito sottoposto a una TAC o comunque agli esami più adatti per capire il tipo di ictus in atto, poi senza perdere tempo si somministrano i trattamenti più indicati al caso. «Tutti hanno vantaggi dall’essere seguiti da una Stroke Unit, anche chi non può fare la trombolisi perché è arrivato tardi in ospedale o chi è più grave perché ha un ictus emorragico - interviene Carlo Gandolfo, docente di Neurologia dell’Università di Genova -. Grazie alle competenze acquisite seguendo solo questo tipo di malati i medici riescono a prevenire e ridurre le complicanze, ad esempio iniziando la riabilitazione il giorno stesso dell’ictus per ritrovare movimento, parola, capacità di deglutire».

«In chi è stato seguito da una Stroke Unit la disabilità a un anno è inferiore del 25 per cento - aggiunge Binelli -. Questo spiega perché l’investimento necessario a realizzare queste unità si ripaghi in appena due o tre anni: in Italia per i pazienti con ictus si spendono ogni anno circa 3,7 miliardi di euro, a cui si aggiungono almeno 13-14 miliardi di costi stimati per le famiglie, sulle quali la malattia ha un impatto devastante perché si trovano a dover gestire, spesso del tutto da sole, l’impatto delle disabilità residue». Ridurre le conseguenze dell’ictus con trattamenti tempestivi e specifici in Unità specializzate sarebbe perciò essenziale, ma la strada per arrivarci è in salita: alla carenza di Stroke Unit si somma infatti la mancanza di un protocollo specifico per il soccorso. «Quando il 118 interviene su una persona con chiari sintomi di ictus la regola impone di portarlo al più vicino Pronto Soccorso, indipendentemente dal fatto che vi sia una Stroke Unit - spiega Binelli -. Questo rallenta le cure perché spesso in un normale Dipartimento d’Emergenza non si può fare la terapia più adeguata e si deve perciò trasferire comunque il malato in una Stroke Unit, perdendo altro tempo. La nostra proposta è adottare ovunque il “codice ictus”, già attivo in Regioni come Liguria e Lombardia: in pratica, un protocollo di emergenza che funzioni come una corsia preferenziale e consenta di portare il paziente con ictus alla Stroke Unit più vicina, guadagnando minuti preziosi».

Il codice ictus ovviamente deve andare di pari passo con la realizzazione delle unità, perché se non sono a portata di ambulanza arrivarci diventa impossibile: «A Napoli, una città con un milione di abitanti, non esiste una Stroke Unit; in Sicilia per 5 milioni di persone ce ne sono appena 5 - sottolinea Gandolfo -. Dove c’è una buona rete, come in Lombardia, Piemonte, Emilia Romagna o Veneto, il 60-70 per cento dei pazienti viene seguito in una Stroke Unit riducendo mortalità, disabilità, durata dei ricoveri e aumentando la probabilità di tornare a casa propria senza doversi ricoverare in strutture per lungodegenze. Altrove i malati finiscono in reparti di ogni tipo, non attrezzati per affrontare casi spesso complessi e impegnativi; negli ospedali organizzati per intensità di cura, poi, dove i pazienti vengono “smistati” solo in base alla gravità, chi ha l’ictus viene gestito accanto a chi ha una pancreatite e l’approccio iper-specializzato che servirebbe è del tutto capovolto». Così, escludendo le Regioni “virtuose”, nel nostro Paese solo un paziente su quattro arriva dagli specialisti dell’ictus entro quattro ore dai sintomi, in tempo per essere curato al meglio.

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