Ci siamo quasi: dopo sei anni di eventi e procedure, il 21 Dicembre dovremmo sapere se sarà confermata la sentenza per i tre manager di Google condannati in primo grado a sei mesi (pena sospesa) per violazione del Codice italiano della Privacy. Purtroppo, l’ultimo episodio di questo triste serial rischia di essere deludente. Per capire perché, vediamo un breve riassunto delle puntate precedenti.

Il 10 settembre 2006 alcuni studenti di una scuola di Torino si auto-filmano mentre maltrattano un compagno di classe affetto da autismo. Non soddisfatti, caricano il filmato su Google Video (una piattaforma di hosting di contenuti video di proprietà di Google, con sede negli Stati Uniti), accettando i Termini di Servizio, che contengono un riferimento specifico alla privacy policy di Google. La loro operazione conferma una cosa risaputa: non c’è limite alla stupidità umana. Nel video, uno dei maltrattatori diffama l’associazione Vivi Down. Ulteriore conferma che stupidità, malevolenza, e ignoranza vanno spesso in cordata: la sindrome down non ha nulla a che fare con la vittima. Il 7 novembre Google provvede alla rimozione del video “tempestivamente” (così la sentenza di primo grado) nell’arco di poche ore dalla segnalazione dell’abuso, e inizia a collaborare con la Polizia per identificare i responsabili. Ben fatto. I quattro bulli responsabili sono identificati e processati. Ben fatto due.

Nel dicembre 2007, il Tribunale dei minorenni di Torino li condanna a 10 mesi di lavoro al servizio della comunità. Ben fatto tre. Si spera che bastino a recuperare il deficit in stupidità, malevolenza, e ignoranza di cui sopra. Ogni tanto si può essere orgogliosi della giustizia italiana. Il processo continua con Vivi Down come parte lesa. Uno come me inizia a essere concettualmente disorientato. Arriviamo al 2009. La Procura di Milano rimanda a giudizio quattro dirigenti di Google, David Drummond, Arvind Desikan, Peter Fleischer e George Reyes, per diffamazione e violazione del Codice Italiano in materia di protezione dei dati personali. Molti, come il sottoscritto, si chiedono perché.

Il giudice di primo grado li assolve dall’accusa di diffamazione e riconosce l’assenza di un obbligo di monitoraggio preventivo da parte di Google video sui contenuti caricati dagli utenti. Ben fatto quattro. Altro momento di orgoglio. Ma David Drummond, Peter Fleischer e George Reyes sono condannati per aver violato imprecisati obblighi di informativa sulla base dell’Articolo 13 del Codice italiano della Privacy, che prevede che servizi come Google Video forniscano un’adeguata informativa sui dati personali degli utenti. Momento di confusione per quanti di noi hanno seguito la vicenda conoscendo i fatti e la legislazione in materia. Google Video disponeva di tale informativa e i Termini e Condizioni rendevano chiara la necessaria condizione del previo consenso esplicito delle persone riprese nel video.

La confusione, sempre tra chi ha seguito la vicenda da vicino, diventa smarrimento quando la decisione di primo grado cita il profitto come intento criminale (non vi era nessuna pubblicità associata a Google Video all’epoca dei fatti e il servizio era gratuito) e i tre dipendenti ricevono una condanna penale, nonostante il suddetto Articolo 13 non abbia rilevanza penale. Si giunge così allo scorso 4 Dicembre, quando si apre il processo di appello presso il Tribunale di Milano in cui i giudici dovranno decidere se Google ha effettivamente violato il Codice italiano della Privacy.

Vediamo ora perché c’è il rischio di restare delusi.

Supponiamo che i giudici decidano a favore dei dipendenti Google. I fatti son presi in considerazione, le leggi applicate, e i principi etici sono rispettati. La delusione è che avremo perso anni e risorse in una discussione inutile, che si poteva evitare. Il ruolo delle piattaforme di hosting è quello di intermediazione. Esse ospitano i contenuti caricati dagli utenti, ma non esercitano alcun controllo editoriale su detti contenuti – non sono testate giornalistiche, per intenderci. Il controllo è solo a posteriori (rimozione) e non a priori (blocco) perché il primo è facile, mentre il secondo sarebbe praticante impossibile, da un punto di vista tecnico, senza correre il serio rischio di esercitare una totale censura. Non solo, ma per legge (e-commerce Directive e Dec. Leg.70/2003) e grazie al cielo, le piattaforme in questione, e quindi la stessa Google, non sono tenute ad un monitoraggio preventivo dei contenuti caricati dagli utenti. E questo è un gran bene, perché l’ultima cosa che ci si può augurare, in una società libera e democratica, è che la legge obblighi aziende private come Google a esercitare il ruolo ufficiale di Grande Fratello (quello di Orwell, non quello di Mediaset). I tempi del MinCulPop dovrebbero essere passati.

Supponiamo invece che i giudici decidano a sfavore dei dipendenti Google. La delusione, in questo caso, sarà legata al futuro della rete in Italia, come scrissi già tre anni fa parlando della lezione etica del caso Vivi Down. Tre persone saranno condannate per la distribuzione di un video che non hanno creato, non hanno caricato online, non hanno mai approvato, e nonostante il fatto che l’azienda per cui lavorano abbia applicato la legislazione corrente, e fatto del suo meglio per riparare alla stupidità, malevolenza, e ignoranza dimostrata da alcuni bulli online.

Il costo della libertà d’informazione è il rischio che alcuni ne abusino. È un rischio che vale la pena correre. Perché può essere circoscritto, legiferando in modo chiaro e giusto su come la libertà di informazione sia resa possibile. Perché può essere ridotto, educando le persone all’esercizio responsabile della libertà d’informazione messa a loro disposizione. E perché può essere controbilanciato, punendo in modo giusto e proporzionato chi non rispetta le regole su come la libertà d’informazione sia resa possibile “a monte” o possa essere esercitata “a valle”. Si tratta di equilibri delicati, che stiamo imparando a disegnare e gestire solo ora, in un’infosfera che stiamo capendo mentre la costruiamo. L’importanza culturale e etica della sentenza del 21 Dicembre sta nel segnale che essa darà su come si intende disegnare la cultura della rete in Italia. È su questo che vale la pena stare con il fiato sospeso.

* Esperto di etica informazionale, titolare della Cattedra UNESCO in Information and Computer Ethics, della Cattedra di Filosofia dell’Informazione presso l’Università dell’Hertfordshire, e fondatore dello IEG, il gruppo di ricerca sull’etica e la filosofia dell’informazione che dirige presso l’Università di Oxford.