I genitori che abbiano omesso di dichiarare la nascita del figlio nei termini di legge non perdono più automaticamente la potestà genitoriale. Sarà il giudice a valutare, invece, caso per caso, se al reato in questione si debba o meno applicare la pena accessoria della perdita della potestà.
Chi non dichiara la nascita del figlio non perde più la potestà
Storica sentenza della Corte Costituzionale a tutela delle famiglie: chi non dichiara all’ufficiale di stato civile la nascita del figlio non perde più la potestà genitoriale sul proprio figlio.
Fino ad oggi, i genitori che omettevano di dichiarare la nascita del figlio all’ufficiale di stato civile perdevano automaticamente la potestà genitoriale [1].
La “dichiarazione di nascita” – lo ricordiamo – va fatta entro 10 giorni dalla nascita all’Ufficiale di Stato Civile del Comune di nascita o di residenza. In alternativa, i genitori possono effettuare tale dichiarazione entro 3 giorni dalla nascita presso la Direzione Sanitaria dell’Ospedale o della Casa di Cura in cui è avvenuta la nascita.
Con una rivoluzionaria sentenza di oggi, la Corte Costituzionale [2] ha modificato tale disciplina, dichiarando incostituzionale l’articolo del codice penale [1] che detta tale pena. Tale sanzione accessoria sarebbe infatti in contrasto sia con il principio di uguaglianza, sia con gli impegni internazionali assunti dal nostro Paese con il resto del mondo nell’ambito della protezione dei minori [3].
Secondo la Corte, l’automaticità della pena accessoria della perdita della potestà genitoriale finisce, in definitiva, per trasformarsi in un pregiudizio soprattutto per il minore (prima ancora che per il genitore), il quale non ha ovviamente colpe. La perdita della potestà, infatti, impedirebbe al fanciullo di crescere con i propri genitori e di essere educato da questi (salvo, ovviamente che da ciò derivi un grave pregiudizio).
Ciò non vuol dire che tale sanzione accessoria non si applicherà più alla commissione del reato in commento di mancata dichiarazione del minore; ma il giudice valuterà se applicarla o meno ad ogni singolo caso, in base all’interesse del minore.
La dichiarazione di incostituzionalità operata ieri, dunque, riveste un’importanza storica perché rivolta alla tutela della famiglia e delle esigenze educative ed affettive del minore.
note
[1] Art. 569 cod. pen.
[2] Corte Cost. sent. n. 7 del 2013.
[3] La Corte richiama l’art. 3, primo comma, della Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989, il quale prevede che «In tutte le decisioni relative ai fanciulli, di competenza sia delle istituzioni pubbliche o private di assistenza sociale, dei tribunali, delle autorità amministrative o degli organi legislativi, l’interesse superiore del fanciullo deve essere una considerazione preminente». Viene pure evocata, quale normativa interposta, la Convenzione europea sull’esercizio dei diritti dei fanciulli, adottata dal Consiglio d’Europa a Strasburgo il 25 gennaio 1996, la quale stabilisce che l’autorità giudiziaria, prima di giungere a qualsiasi decisione riguardante un minore, deve «esaminare se dispone di informazioni sufficienti in vista di prendere una decisione nell’interesse superiore del fanciullo».
Si richiama, infine, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, la quale, all’art. 24, secondo e terzo comma, da un lato prescrive che «In tutti gli atti relativi ai minori, siano essi compiuti da autorità pubbliche o da istituzioni private, l’interesse superiore del minore deve essere considerato preminente» e, dall’altro, che «Il minore ha diritto di intrattenere regolarmente relazioni personali e contatti diretti con i due genitori, salvo qualora ciò sia contrario al suo interesse».